Separati in casa: incendi e foreste distanti come non mai.
Riflettevo come la “modernità” abbia causato la perdita delle abilità antiche, quei “saperi sulla natura” confiscati dagli specialisti dell’ambiente (cit. Nadine Ribet) che hanno generato mostri. Il maneggio del fuoco appartiene a quei “saperi ecologici locali” – traditional ecological knowledge, TEK – che in tutto il mondo occidentale a partire dai primi del ‘900 sono stati trasformati in usi criminali e illegali.
La storia viene da lontano, e più precisamente dal Code Colbert che ha innovato la visione fisiocratica della gestione delle foreste e ha introdotto il divieto assoluto di uso del fuoco prima nelle foreste e poi negli ambienti rurali latu sensu. Quando venne istituito il Yellowstone Park la sua gestione venne affidata all’esercito americano, e le politiche forestali consistevano essenzialmente nel controllo militare degli incendi.

I primi tecnici forestali americani – formati a West Point – seguivano le lezioni di selvicoltura all’Università di Nancy in Francia, dove l’idea del fuoco-nemico era sistematicamente teorizzata e praticata. Come i tecnici americani anche quelli sabaudi e italiani post-unitari subirono l’influenza delle teorie contro il fuoco seguite a Nancy. Detto questo è più facile comprendere come in Sardegna – così come nelle praterie e nei boschi aperti delle Montagne rocciose, per millenni usati e plasmati dal fuoco dei nativi – una pratica antica divenne illegale o a mala pena tollerata. Le normative forestali in Sardegna furono da subito orientate a escludere il fuoco, pratica “retrogada” e arcaica, dall’equilibrio storico delle campagne, in cui conoscenze empiriche e abilità sperimentate e trasmesse da padre a figlio servivano a realizzare un efficiente gestione dei combustibili lungo il ciclo coltura cerealicola-pascolo- fuoco- aratura, soprattutto nelle terre ad uso comune (comunella pascoli).
Quegli usi rendevano ecologicamente compatibile la presenza umana con la conservazione di foreste adattate al passaggio periodico e a bassa energia del fuoco colturale (o generato da fulmini, poco importa).
Con molta insoddisfazione vedo che oggi sta giungendo all’apice istituzionale la separazione della gestione degli incendi dalla gestione forestale, così come è già successo in Portogallo e in Grecia. La visione emergenziale rappresentata dalla “rassicurante” presenza di elicotteri e canadair nei nostri cieli indica che si continua a confondere le cose e che l’idea che la tecnologia risolva un problema che è legato all’abbandono ed all’accumulo di combustibili non può portare da nessuna parte.
Con la L.R. n° 8 del 2016, (la c.d. Legge forestale sarda) si è persa una occasione di trattare con ampio respiro l’argomento, introducendo solo sanzioni peraltro confuse. La pianificazione antincendi risponde solo ai modelli emergenziali ideati da Bertolaso nel 2007 dopo i morti di Peschici, ma non è in grado di incidere in nulla sulla reale rimozione del pericolo, limitandosi a formali assunzioni di responsabilità (quando ci sono) per le evacuazioni ed il soccorso alle persone. Ma è già tardi.
Sullo scenario abbiamo davanti agli occhi incendi di 4° e 5° generazione (incendi simultanei e di chioma che colpiscono le aree urbanizzate) con enormi energie e rilascio di calore a cui le timidissime prescrizioni AIB , peraltro poco rispettate, non riescono a costituire un baluardo efficace.
Sono incendi che, quando si presentano, si sarebbero dovuti spegnere 40 anni prima.
Il mondo intero si interroga sul cambio di paradigma: dalla esclusione alla coesistenza con il fuoco. Nel nostro piccolo anche per noi ragionare su queste cose può essere un contributo ad una visione non dipendente.